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EDITA WALTEROWNA
Assume notorietà artistica con tale nome e cognome in Italia, proveniente dalla Lettonia, sconosciuta e senza alcuna esperienza espositiva all’attivo, neanche del tipo collettivo.
Nasce Edita Walterowna von Zur Muehlen il 26 novembre 1886 a Smiltene, nella Lettonia orientale (Livonia). Il padre Walter è di origine prussiana e appartiene alla classe feudale dei Baroni Baltici. La madre Blanchine Sivers appartiene a una famiglia di commercianti francesi, insediatisi a Riga da gran tempo.
Nel 1899 rimane orfana della madre. Lo zio barone Raimund von Zur Muehlen (1855-1931), cantante alla corte dello Zar e dell’imperatore prussiano, favorisce la sua formazione artistica.
Allorchè scoppia la prima rivoluzione nel 1905, abbandona avventurosamente la Lettonia e raggiunge col padre e lo zio la Prussia orientale: successivaemnte si reca in Polonia e poi a Berlino, dove lavora come infermiera all’Ospedale della Carità.
Nel 1908 (ventiduenne) si stabilisce a Konigsberg (l’attuale Kalinigrad), la città di Emmanuel Kant, dove frequenta l’Accademia di Belle Arti fino al 1910. Nello stesso anno si reca per la prima volta a Parigi, dove frequenta gli ateliers di alcuni artisti. Visita Rouen, la città nella quale fu arsa viva Giovanna D’Arco.
Nel 1911 arriva per la prima volta in Italia, soggiorna brevemente a Firenze e Roma..
Nel 1912 (ventiseienne) torna in Italia e si stabilisce definitivamente a Roma. Olga Resenvic-Signorelli, traduttrice di romanzi russi, la introduce e accredita nel “milieu” artistico internazionale della capitale italiana, dove conosce, tra gli altri, anche lo scultore Angelo Zanelli, già marito della pittrice lettone Elisabeth Kaehlbrandt.
Nel 1913 ha inizio la sua attività espositiva: partecipa con due opere alla Prima Esposizione Internazionale d’Arte della “Secessione”, allestita nelle sale del Palazzo delle Esposizioni a Roma.
Nel 1914 muore il barone Walter von Zur Muehlen, suo padre, nato nel 1855. Si reca a Smiltene in Lettonia per sistemare la tomba di famiglia. Non vi farà mai più ritorno. L’Italia sarà la sua nuova patria fino alla fine dei suoi giorni. Morirà ultranovantenne.
Nel 1917 (trentaduenne) incontra Enrico Mario Broglio, scrittore e pittore ventinovenne destinato a diventare anche editore della rivista “Valori Plastici” e organizzatore di mostre d’arte. Ha inizio un rapporto di coppia e un sodalizio intellettuale e artistico che lascerà tracce bibliografiche (e non solo) indelebili nel dibattito delle idee e dell’artisticità dell’epoca. Decide di firmare “Edita Broglio” i suoi dipinti e comincia a esporli confrontandosi in numerosissime occasioni con gli artisti italiani più celebrati del momento.
Tra il 1918 e il 1921 collabora alla pubblicazione di 15 fascicoli della rivista “Valori Plastici”.
Nel 1927 sposa il Broglio, destinandosi a sopravvivergli, nominata sua erede universale nel 1946.
Enrico Mario Broglio muore il 22 dicembre 1948. Edita trascorre il primo periodo della vedovanza a San Michele di Moriano in provincia di Lucca (Toscana) fino al 1955, anno in cui si trasferisce a Roma., dove mantiene in vita per alcuni anni le edizioni Valori Plastici.
Nel 1974 (quasi novantenne) si lascia persuadere a mettere ordine nell’archivio di Valori Plastici, collaborante il poeta e pittore Georges de Canino. Muore a Roma il 19 gennaio 1977, giorno di San Mario. E’ sepolta nella Chiesa Ortodossa del cimitero acattolico per gli stranieri al Testaccio.
GIUDIZIO CRITICO- Le sue prime opere sono caratterizzate da una perfezione accademica di scuola d’ambito tedesco, con evidenti tracce della pittura fauve.
In Italia ha dipinto per svelare il cosiddetto “segreto degli antichi”, senza intenzioni restaurative e di revival della tradizione o rivalsa sull’avanguardismo: impegnata nella elaborazione della propria poetica, “…mantenendosi in una personale equidistanza tra le valenze inquietanti di De Chirico, quelle ironiche di Savinio e quelle arcaizzanti di Carrà”.
Ha ridipinto opere già dipinte: il medesimo soggetto in un diverso ambiente, con diversa luce, diverse cromie, diverse intenzioni esegetiche. Ha completato opere lasciate incompiute dal marito, ha retrodatato ingannevolmente opere personali, molte non le ha datate disordinando la cronologia esecutiva di tutto il suo “corpus” artistico.
Proveniente dalla lontana periferia baltica dell’impero russo, la Lettonia “terra di uri e di ambra”, di laghi e di vento, ha conservato (o preservato!) il temperamento originario fino alla fine della sua vita. Tanto che un critico d’arte italiano ha scritto: “non è artista nostrana”. Perché un certo atavismo culturale prussiano russificato, mai rimosso dal profondo del suo inconscio, l’ha continuamente determinata nella elaborazione delle soluzioni formali, iconiche e cromatiche più ricorrenti nei suoi dipinti, durante la sua lunghissima e ininterrotta permanenza in Italia.
Come già scritto per la Kaehlbrandt, anche per la Walterowna, ricognomatasi Broglio, è possibile (opportuno) scrivere che ha dipinto opere meno apprezzate dalla critica d’arte, dopo essere rimasta vedova nel 1948.
VIJA SPEKKE
Assume notorietà artistica in Italia a partire dal 1982, dopo una esposizione personale al Latvian Centre di Washington nel 1977.
Nasce a Riga nel 1922 da Arnolds Spekke (1887-1972), storico e docente universitario, linguista e scrittore, autore di studi sul Cervantes e sull’Ariosto e di un libro sui rapporti degli umanisti di Riga con gli autori del Rinascimento italiano, creatore di un gruppo di “romanisti” comprendente anche Laima Akuraters traduttrice del Petrarca e Veronika Strelerte traduttrice de “La vita” di Benvenuto Cellini.
E’ anche nipote di Edvarts Virza nato Edvarts Liekna (1883-1940), il maggior poeta moderno in lingua lettone, studioso della letteratura russa e di quella francese: sposato dal 1920 alla poetessa Elza Sterste (1885-1976) traduttrice di opere francesi in lettone e viceversa.
Nel 1933 giunge in Italia con la famiglia, poiché suo padre è stato nominato Ambasciatore della Repubblica di Lettonia per l’Italia, la Grecia, la Bulgaria e l’Albania. Dà inizio ai suoi studi artistici presso l’Accademia Reale di Belle Arti a Roma.
Nel 1940, a seguito dell’occupazione russa della Lettonia, si stabilisce in Inghilterra col marito Michael Fyfe. A Londra completa e conclude i suoi studi artistici presso la Ruskin School di Oxford. Anche suo padre si stabilisce a Londra.
Nel 1952 si stabilisce a Verona nella Villa Valverde, residenza aristocratica cinquecentesca nella piana di Montorio, proprietà del conte Orazio da Sacco (1904-1977), suo secondo marito.
A Verona segue i corsi dell’Accademia Cignaroli (pittura, scultura, incisione, litografia). Contemporaneamente frequenta anche i corsi di serigrafia e litografia della Scuola Internazionale di Grafica a Venezia.
Ha tradotto in italiano per la casa editrice Rizzoli “Pensieri Incompleti” di Mara Zalite, scrittrice lettone.
Vive e abita a Verona: quando soggiorna a Riga abita nella città vecchia.
GIUDIZIO CRITICO- Gli approcci esegetici alla opere di Vija Spekke, eseguiti dagli Autori dei testi che costituiscono la sua bibliografia, hanno generato pregevoli esercizi di scrittura letteraria e di analisi psicologica (anche psicanalitica). Una specifica e attenta analisi estetologica, perciò, non è stata ancora effettuata. Gioverà, quindi, prima di continuare a scrivere il mio testo , “tematizzare” come segue in corsivo: Figuratività evocata e allusiva – Classicismo fantasmatico lettonizzato – Immaginazione tardoromantica e simbolista di estrazione nord-europea – Romanticismo visionario.
Tale “tematizzazione” la considero indispensabile: sapendo che la pittrice di origine lettone opera in sintonia con testi poetici di Autori Illustri (Jorge Luis Borges, più di altri), e sapendo abbastanza della cultura e della intelligenza che sono presenti nei suoi dipinti. Pérchè durante la sua lunga esistenza, che ha raggiunto e superato agevolmente l’ottuagenarietà, cultura e intelligenza sono state presenti a cominciare dal giorno della sua nascita: avendo avuto per genitore il più noto e apprezzato degli storici nazionali lettoni (Arnolds Spekke) e per zio il più considerato dei poeti lettoni (Edvarts Virza).
E’ stato scritto che per la Spekke “…dipingere significa certamente amare ancora, secondo una felice definizione di Henry Miller”. Presupponendola votata definitivamente all’arte pittorica nel momento in cui si è resa consapevole di non avere chi o che cosa amare. La mia opinione è che la Spekke si sia concessa anima e corpo alla pittura tardivamente, dopo averla ambita e lungamente meditata come opzione vitale definitiva. Ragion per cui il dipingere lo ha privilegiato come “fare” totale e totalizzante, supportato da attente letture di testi poetici, per la comunicazione delle proprie emozioni, per la raffigurazione dei propri incantamenti e dei propri sogni (sia a occhi chiusi che a occhi aperti!), e per exprimere poesia: perché, alla resa dei conti esistenziali, il bilancio personale risultasse contrassegnato da qualche “ segno più”.
Sono tante le citazioni iconiche e formali, sia esplicite che implicite, totali o in frammenti, nei suoi dipinti: perché è tanta la conoscenza artistica e letteraria acquisita, elaborata e metabolizzata.
Scritto ciò, è possibile ora analizzare le opere che costituiscono il suo “corpus artistico”, scrivendo che non si è mai autoraffigurata, perché non ha mai nutrito il culto di sé e delle proprie fattezze, né ha mai raffigurato fattezze amicali o famigliari, così come non ha mai riprodotto il reale o il riconoscibile come realtà. Per raffigurare, invece, il desiderio e il sogno, connotandoli con segni, materia cartacea e cromie, dando consistenza alla trasparenza e alla leggerezza: la stessa trasparenza e la stessa leggerezza dell’ambra che lascia intravedere reperti inglobati del mondo animale e vegetale. Poiché l’ambra, come ho già scritto, può essere adottata come metafora “materica” per illustrare e spiegare un artista lettone: sia questo pittore, scrittore, musicista, altro creativo.
Niklavs Strunke (1894-1966)
Considerato dai critici d’arte connazionali il più lettone dei pittori del ‘900, ha trascorso la maggior parte della sua vita a Roma, soggiornando anche a Firenze, Sorrento, Capri. Tanto che gli attribuiscono questa frase: “Se non posso dipingere Lettonia, dipingo Italia, siccome a me, vecchio romantico di Riga, è molto vicina”. E’ sepolto nel cimitero acattolico del Testaccio a Roma, con un simbolo lettone scolpito nel marmo bianco che la contraddistingue.
Visitò l’Italia per la prima volta nel 1924, dopo aver conosciuto il futurismo italiano tramite un gallerista/scrittore (un certo Vasari) incontrato a Berlino. Ebbe subito per amico il pittore marchigiano Ivo Pannaggi (1901-1981), successivamente vissuto a lungo a Copenaghen, col quale dipinse "astrattismo geometrico", e che avrebbe raffigurato in un "ritratto" monografato a Riga nel 2002 da Dzintra Andrusaite, come opera del 1924, post-mortem di entrambi.
Le sue opere non sono immediatamente riconoscibili, perché il loro autore non si è dato uno stile, poiché ha dipinto e disegnato tanto e di tutto in maniere plurime. Metabolizzando e usando tutto il “sapere” che è riuscito ad assimilare per dare forma e contenuto pertinenti alla specialità della idea che di volta in volta lo ha “interessato”. “Senza impiastricciarsi di teorie o abbracciare bandiere”, è stato scritto di molti pittori della sua “categoria”: talentosi artigiani, più che artisti.
In principio ha riproposto estetismi lettoni, successivamente ha lettonizzato estetismi “esotici” che lo hanno occasionalmente intrigato come emulo o epigono, nelle occasioni in cui ha anche pensato usando la sua “bella mano” creatrice.
Il corpus delle sue opere lo documenta, perciò, come individuo creativo capace, versatile e polimorfo, gregario più che leader: produttore eclettico e disinvolto di scenografie e costumi teatrali, ex libris, illustrazioni e copertine per libri, ritratti e autoritratti, sia dipinti che disegnati, acquerelli, piatti in porcellana, vetrate, figuratività popolare o popolaresca, coeva ad altra figuratività elitaria e aristocratica.
Quasi certamente ha incontrato ad Anticoli Corrado, località laziale per villeggianti, durante un soggiorno estivo, la pittrice lettone Elisabeth Kaehlbrandt moglie dello scultore italiano Angelo Zanelli. Ed è possibile supporre che abbia incontrato a Roma anche Edita Walterowna, altra pittrice lettone in rapporto di coppia col pittore e intellettuale italiano Mario Broglio, molto attiva e ben considerata.
ILZE JAUMBERGA
E’ nata secondogenita a Riga (Lettonia) il 16 febbraio 1978. Il padre Andris è un docente laureato in fisica, con otto anni adolescenziali trascorsi deportato con la famiglia nella Siberia sovietica degli anni ’40 e ‘50. La madre Anna è una geografa, con attività lavorativa pagata da una multinazionale che produce e commercializza rilievi cartografici. Il fratello è laureato in chimica, con esperienze lavorative pluriennali negli USA. Ha compiuto studi artistici regolari e progressivi in Istituti specifici (sia inferiori che superiori) fino al conseguimento del diploma e del “magister” della Accademia di Belle Arti a Riga, specializzandosi in pittura classica. Giovanissima, ha compiuto i suoi primi viaggi all’estero. Ha dato inizio alla sua attività espositiva nel 2000 a Riga. Parla correntemente la lingua inglese e quella italiana, sa esprimersi in russo.
Soggiorna frequentemente a Venezia, in concomitanza con eventi artistici internazionali e il Carnevale.
Altro con immagini in: www.IlzeJaunberga.com
Elisabeth Kaehlbrandt
Di stirpe alto-borghese, generata nel 1880 a Riga in Lettonia, da una coppia tedesco-polacca, con parenti pastori evangelici, ha familiarizzato con baroni, conti e principi tedeschi fino all’età di 28 anni, soggiornando nei loro castelli e dipingendo al loro servizio. Perciò la sua pittura è la pittura di una “gran signora”, nata e vissuta agiatamente in dimore con stanze e servitù per ogni necessità, che ha mal sopportato, poi, ogni volta i disagi contingenti e le ristrettezze economiche obbligate, così come ha male abitato in costruzioni periferiche (l’ultima a Bergamo, sebbene spaziosa 215 mq.).
Ha dipinto figuratività con perizia sperimentata e meditata, per rappresentare e illustrare scene di vita famigliare, luoghi conosciuti, fattezze di persone e personaggi con i quali ha avuto rapporti domestici o ravvicinati.
Tutto è esplicito e verosimile o rassomigliante nelle sue opere. L’allegoria bizzarra e la metafora ardita non le ha concepite, né espresse. La simbolizzazione l’ha iconografata con forme e cromie elementari. Tutto è political-correct nelle sue opere.
Nel suo rapporto con l’arte pittorica ha mantenuto costantemente rapporti simbiotici con la sua balticità aristocratica originaria, estrinsecandola compiaciuta e senza remore. Durante il periodo della vedovanza e durante la terza età, ha dipinto scene bibliche ortodosse e manierate, poco apprezzate dalla critica d’arte.
Concludendo è possibile scrivere che le sue opere ci risultano dipinte da una “signorabene” morta novantenne a Bergamo nel 1970, ex signorina di buona famiglia, ben educata e istruita, divenuta sposa nel 1909 di uno scultore italiano (Angelo Zanelli) in quel momento ben noto al “milieu” sociale, artistico e politico, discriminato e sottaciuto successivamente alla sconfitta del fascismo.
LOLITA TIMOFEEVA
Assume notorietà artistica con tale nome e cognome in Italia, proveniente da Riga, sconosciuta e senza alcuna esperienza espositiva all’attivo, neanche del tipo collettivo scolastico o unione degli artisti. Nasce Lolita Jaskina, secondogenita tra due fratelli, a Riga (Lettonia) il 4 febbraio 1964: l’anno dell’ascesa potere di Leonid Breznev. Il padre Micail è un marinaio bielorusso di Mozyr, tecnico di bordo diplomatosi all’Istituto Nautico di Riga, frequentemente assente perché in navigazione. La madre Raissa è una casalinga in dimestichezza con l’arte culinaria, tanto da privilegiarla come attività lavorativa retribuita. Dando credito al detto “nel nome il destino”, l’esistenza le riserva “rose e dolori”: poiché il nome Lolita deriva dal nome Dolores.
Compie studi scolastici russofoni a Riga, primari e secondari, fino al conseguimento del diploma di stilista calzaturiera presso un istituto tecnico (1984). Poi intraprende gli studi superiori presso l’Accademia del Design a St.Pietroburgo (1984-88) e Mosca (1988-90). A Mosca frequenta l’atelier del pittore Serafim Golofev, e sposa Juri Timofeev, ricognomandosi Timofeeva. Alcune intemperanze caratteriali dello sposo la conducono, però, a porre termine drammaticamente al matrimonio, col ritorno a Riga, il divorzio e l’interruzione degli studi superiori.
A Riga lavora come stilista calzaturiera, e frequenta il corso propedeutico della Accademia di Belle Arti. Nel 1991, anno dell’indipendenza della Lettonia da Mosca (21 agosto), giunge in Italia per sposare un operaio metalmeccanico di origine lucana, Emanuele Noviello, con casa a Monterenzio, attività lavorativa a Ozzano in provincia di Bologna, viaggio di nozze a Matera. Lo ha conosciuto durante una vacanza sul Mar Nero l’anno prima.
Giunge in Italia con nella valigia tutta la sua esperienza di stilista calzaturiera, tanti disegni per i calzaturieri italiani più noti, le ambizioni di pittrice dotata e volitiva, il desiderio di fuga dai disagi del regime sovietico e tante prefigurazioni degli agi europeoccidentali. Si converte dalla religione ortodossa a quella cattolica per sposare il metalmeccanico italiano nella chiesetta di S.Maria di Zena santuario del Monte delle Formiche, territorio collinare bolognese. “Il Resto del Carlino” notizia tale matrimonio titolando: Luna dimiele in pieno golpe – Lui di Monterenzio, lei nata in Lettonia, ( 5 settembre 1991).
Nel 1993, anno delle prime elezioni democratiche della Saeima (il parlamento lettone), acquisisce la cittadinanza italiana, con relativi passaporto e certificato elettorale, e dà inizio alla sua attività espositiva nella sala di una libreria a Bologna, in duo con un’amica russa (architetto), Elena Arkipova. Espone opere nelle quali risulta evidente l’insegnamento sovietico, accademico e formale, degli “ismi” pittorici europeoccidentali ritenuti compatibili con l’ideologia al potere nell’URSS. Opere che raffigurano paesaggi lettoni, composizioni di oggetti d’uso comune locale, figure d’uomini e donne connazionali, interni domestici ed esterni proletari, ruralità eterogenea.
Ha così inizio il suo rapporto con il cosiddetto “mondo dell’arte” e il suo indotto. Il matrimonio italiano si concluderà con la separazione e il divorzio, appena acquisita la cittadinanza italiana, per l’inadeguatezza culturale dello sposo, associata a incompatibilità caratteriali insanabili. ”Il più stupido dei miei matrimoni”, dirà poi a chi glielo ricorderà. La sua abitazione di single assume a Bologna le caratteristiche dell’atelier artistico: uno spazio di felicità tra illusioni e delusioni, vittorie e sconfitte.
Nel 1994 allestisce la sua prima mostra personale a Ravenna, nelle sale della Galleria “Il Patio”, inaugurandola il 4 febbraio, giorno del suo 30° compleanno. Espone opere dipinte dopo l’esposizione nello spazio del Museo Alternativo “Remo Brindisi” al Lido di Spina/Ferrara (Settembre 1993) in duo con l’Arkipova, nelle quali iconizza il suo immaginario raffigurandolo con intriganti “Trasfigurazioni”.
In un mio testo, scritto per “presentarla”, si può leggere: Non è una pitturanaturalistica quella della Timofeeva. Le sue forme sono simboliche. I dettagli non sono precisati fotograficamente. Rifugge il geometrismo. Perché è una pittura che inclina al simbolismo più che al naturalismo, al fantastico più che al reale, all’onirico più che al coscienziale. A questo punto, il più è fatto. L’evento espositivo ravennate rafforza il suo radicamento in Italia con casa/atelier a Bologna, dove comincia a risiedere stabilmente, recandosi periodicamente a Riga per incontrare i suoi famigliari, e per allestire due mostre personali: Galeria Rigas Vini (1-15 giugno 1996), Arzemju Makslas Muzejs (11.05 / 11.06 2001).
Durante gli anni successivi le sue esposizioni si susseguono, sia in Italia che all’estero, testimoniando la sua emancipazione artistica in progress, e la sua maturazione culturale, con prestigiose pubblicazioni e una lusinghera eco massmediatica localizzata. Con qualche “flop”, come le esposizioni (alla resa dei conti clandestine) allestite nella Sala Europa 92 del Centro Ippico Pavarotti (3-28 aprile 1999) e nell’espace “Rdc couloir”- batiment ASP del Parlamento Europeo a Bruxelles (30 settembre-5 ottobre 2002), ignorate dai massmedia e disertate dai visitatori.
La sua scheda elenca numerose esposizioni personali e collettive, in sedi prestigiose e spazi surroganti, con alcune presenze di opere in collezioni museali pubbliche e private, sia in Italia che all’estero. Una esposizione delle tele dipinte ad hoc ed estemporaneamente per un “insieme” intitolato “Anatomia di Firenze”, destinato alla ingenua amatorialità ben redditata dei membri moscoviti di una “Società Fiorentina” in salsa russa, l’ha realizzata a Mosca nel 2004 nella Biblioteca di Letteratura Straniera (12 febbraio / 4 marzo), collateralmente alla presentazione di alcuni libri, per favorirsi un ritorno occasionale nell’utero scolastico russofono della sua giovinezza: proveniente dal benessere artistico e consumistico europeoccidentale conseguito, memore del malessere intellettuale ed economico sovieticorientale sperimentato durante gli anni ’80 del sec.XX°.
Ha eseguito disegni che sono apparsi pubblicati in due libri di poesie: Pendant la féte, tu sera la belle di Enzo Rossi-Ròiss (Iles Célèbes, Geneve 1995) in duo con Alain-Pierre Pillet edito da Sintesi (Bologna) - L’avventura della dualità di Mario Luzi (Caffè Giubbe Rosse, Firenze 2003.
GIUDIZIO CRITICO – Lolita Timofeeva è giunta in Italia nel 1991, artisticamente autodidatta, tutto ignorando del cosiddetto “sistema dell’arte”, relativo alla promozione artistica, e con una conoscenza scolastica dell’arte, moderna e contemporanea, acquisita visitando i musei sovietici e osservando le riproduzioni nei libri d’arte dell’editoria made in URSS. Vi è giunta con nessuna esperienza espositiva nei suoi luoghi di origine e di educazione culturale: determinata a infrangere la sua identità culturale inequivocabilmente “sovietica” e realizzare la sua emancipazione sociale e artistica. Il viaggio in Italia lo ha intrapreso, quindi, come un’avventura, predisponendosi a patire gli eventuali disagi iniziali del matrimonio cattolico con un uomo italiano, culturalmente e socialmente inadeguato a favorire la realizzazione delle sue ambizioni e la sua promozione sociale e artistica.
All’attività espositiva ha dato inizio autarchicamente, nella saletta mercenaria di una libreria a Bologna, incontrandomi ventiquattro ore prima dell’inaugurazione (11 febbraio 1993): determinata a promuoversi in luoghi abitati da una committenza artistica benestante. Poi è stato un susseguirsi di esposizioni personali e collettive, in gallerie private e luoghi pubblici, oltre che in alcune fiere dell’arte, convenientemente “presentate” da critici d’arte, scrittori e poeti illustri, puntualmente notiziate da giornali e riviste. Fino al 1997, anno in cui ha rappresentato ufficialmente la Repubblica di Lettonia alla XLVII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, da me prescelta e promossa nel ruolo di Commissario e critico presentatore nel catalogo ufficiale.
La Timofeeva l’ho accreditata e promossa: realizzando tutte le sue esposizioni personali e collettive fino al 1999; curando tutte le sue presenze in Artefiera (Bologna) ininterrottamente dal 1995 al 1999, nella Miart (Milano) 1996, nella Europart (Ginevra) 1996 e 1997, in Veneziarte (Venezia) 1999; scrivendo numerosi testi critici e letterari, e sollecitando la scrittura di altri testi d’altri Autori miei conoscenti. Fino a che non ha considerato opportuno autopromuoversi, convinta di avere imparato a suscitare interesse autonomamente, non supportata dalla promozione di promoters dotati di conoscenza e conoscenze specifiche: stimandosi sufficientemente istruita e idonea a far ciò percorrendo vie “amicali” e accompagnandosi a mentori che il sistema dell’arte considera “corpi estranei” ininfluenti e “tutors” parassitari
Si è data, così, visibilità mondana e massmediatica, come protagonista solitaria di eventi espositivi estemporanei “una tantum” in spazi marginali o surroganti (sebbene aulici, in alcuni casi), supportata da scrittura critica gregaria e occasionale, discriminata dagli addetti ai lavori in dimestichezza con la scrittura critica leader. Opportunisticamente “assessorata” (in alcune occasioni), oppure in esposizione con altri artisti etereogeneamente insiemizzati da critici d’arte curatori di mostre con titolazioni velleitarie onnicomprensive. Sperimentando, così, il depotenziamento massmediatico e il ridimensionamento esegetico, dopo avere sperimentato il contrario: poichè notiziata ogni volta soltanto in loco da cronisti agiografi, tuttoscriventi sterili sprovvisti di sapienza esegetica.
Analizzando i cataloghi delle esposizioni già realizzate dal 1993 al 2006, si può rilevare la mutazione stilistica che ha caratterizzato le sue opere, tanto ci risulta variegata la loro fisionomia. Con una identità psico-sociologica-culturale plurima: lettone per quanto riguarda il luogo di nascita, russa per quanto riguarda la lingua e l’educazione scolastica, italiana per quanto riguarda l’emancipazione ed evoluzione artistica. Ragion per cui è possibile etichettarla pittrice eclettica, polimorfa e proteiforme, nomade per quanto riguarda gli stimoli creativi ai quali si è accampagnata e le poetiche già espresse, priva di uno stile personale riconoscibile. Poiché una genetica discontinuità caratterizza i suoi cicli creativi, per quanto riguarda l’invenzione formale, la poetica prevalente e ricorrente, il peso della carica simbolica e la vastità dell’area metaforica. E perché il cosiddetto “mestiere del dipingere” lo ha appreso frequentando gli ateliers di due artisti (uno a Mosca e l’altro a Riga), più che le aule e gli atelieurs d’una Accademia di Belle Arti. Apprendendo il resto autodidatticamente visitando i musei, leggendo libri e rapportandosi a persone ricche di conoscenza specifica e conoscenze prestigiose.
Tanto da meritare di essere annoverata subito tra gli “individui creativi di talento” con le opere del ciclo “Trasfigurazioni”, dipinte in Italia durante gli anni 1993-94, dopo le “Raffigurazioni” scolastiche o accademiche dipinte in Lettonia. Inanellando successivamente prestigiosi e significativi riconoscimenti “critici” con le opere del ciclo “Allegorie”, che ha poi “concettualizzato” ridipingendole in frammenti variamente componibili in puzzle, ma singolarmente autonomi e conclusi per quanto riguarda la struttura formale e il contenuto poetico. (Con l’esposizione di tali opere ha esordito nella Artefiera 1995, e si è meritato l’invito a rappresentare la Repubblica di Lettonia nella XLVII Biennale di Venezia 1997).
La Timofeeva è considerata, attualmente, artista virtuosa nel concepire e realizzare mimesi iconiche e aniconiche con apporti di stilemi storicizzati e museificati, capace di simulare accademicamente forme e contenuti artistici di volta in volta simbiotici o più convenienti e remunerativi: fallosamente fiduciosa, però, nella propria abilità autopropositiva (errori di calcolo !?) e nella personale versatilità operativa (errori di presunzione!?) al limite dell’autolesionismo etico ed estetico inconsapevole. Come e quanto un’attrice teatrale sperimentata, capace di simulare sentimenti e comportamenti finalizzati alla resa scenica immediata, prescindendo dalle disapprovazioni considerate negatività contingenti.
Le opere più originali che ha ideato e realizzato, però, fino all’anno in cui scrivo, sono quelle che costituiscono il ciclo “Kama” (dipinti, sculture in vetro e bronzo, opere grafiche): una straordinaria raffigurazione del mondo dei sensi esplorato godendo senza remore un rapporto di coppia intellettuale e passionale, totale e totalizzante, destinato a rivelarsi ineguagliabile, perché vissuto intensamente nel momento in cui il fervore sentimentale l’ha pervasa in sintonia col fervore creativo. Si tratta di una trascrizione del Kama Sutra con immagini plastiche e pittoriche magistralmente eseguite, che emblematizzano l’amplesso amoroso goduto nei momenti in cui il suo desiderio ha mosso… passi decisi e veloci senza inciampare (parole di un poeta). Come ho scritto per le opere intitolate “Kama”, nel ruolo di esegeta “ab origine”.
(Enzo Rossi-Ròiss – "Mondo lettone made in Italy", QuattroVenti Edizioni, Urbino 2007)
LETTONIA: 90° ANNIVERSARIO DELL’INDIPENDENZA
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Il 18 novembre 1918, poco dopo la resa della Germania fu proclamata l’indipendenza dello stato baltico. Oggi la Banca Popolare di Lettonia, vuole ricordare l’evento con l’emissione di una moneta d’argento dedicata al 90 anniversario dell’ indipendenza. Progettata e modellata dall’artista Aigars Bikše, la moneta riporta sul diritto lo stemma lettone composto da un sole radiante entro il quale si notano la lettera L e tre stelle simbolo delle regioni unite. Il rovescio evidenzia un disegno fanciullesco di un bimbo ed una bimba che, presi per mano, sorreggono la bandiera. Sia sul diritto che sul rovescio sono presenti zone smaltate nei colori nazionali bianco e rosso. Con un valore nominale di 1 Lats, la moneta è a corso legale ed è stata coniata in soli 5.000 esemplari. Il peso è di 31,47 grammi per un diametro di 38,61 mm. Il titolo dell’ argento è 925 e la lavorazione è proof o fondo specchio. Zecca di emissione: la finlandese Rahapaja Oy. La Lettonia ed il crollo dell’URSS: intervista ad Alfred Rubiks http://www.resistenze.org/sito/te/pe/mc/pemc8a08-002486.htm Un abitante della Lettonia è stato condannato per la fomentazione della discordia interetnica Martedì il tribunale circondariale di Riga ha condannato per un anno di carcere, con il beneficio della condizionale, l’abitante della Lettonia Rudolf Treis per una nota messa su Internet che fomenta la discordia interetnica. Lo comunica oggi la versione Internet del giornale “L’Ora” della Repubblica. Come constata l’edizione Treis ha lasciato una nota espressamente negativa ed ostile nei confronti dei russi su uno dei portali Internet. La popolazione della Lettonia conta circa due milioni e mezzo abitanti tra cui più del 40 % sono abitanti russsofoni. (21.10.2009)
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